Il viaggiatore felice

gabbiani

Non potevo iniziare la mia prima riflessione in questa particolare sezione con un tema particolarmente espressivo: il legame che sostanzialmente esiste tra la felicità e il senso del viaggiare. Così mi sono rifatta a diversi spunti giornalistici ed in particolare ad uno che, tempo fa, trovai tra le pagine di Focus: “viaggiare migliora il senso di controllo sulla propria vita, incrementa la capacità di entrare in relazione con gli altri e modifica perfino la propria scala di valori” (famiglia, amici e aspirazioni personali primeggiano sulle questioni di lavoro). Fin dai tempi più antichi, l’uomo venne considerato come soggetto “nomade”, sempre in viaggio e in movimento e questo spiega perché in fondo siamo esseri “programmati per viaggiare, per cercare la varietà”. E’ di questo parere Marco Villamira autore del libro sulla psicologia del viaggio, “Ambienti dell’ospitalità”(ed. Alinea 2008) in cui sottolinea come il viaggio non sia altro che “una ricerca di conoscenza che avviene fuori ma anche dentro di noi”. Questo, infatti, è l’atteggiamento tipico delle popolazioni tribali per cui l’esplorazione di uno spazio sconosciuto è fonte di fascino, curiosità e interesse verso quello che è inizialmente si ignora, tanto da essere ritenuta, secondo l’antropologo inglese Maurice Bloch “un’esigenza innata”. Il viaggio ha effetti benefici a livello cerebrale e neurofisiologico: abbandonarsi alla ricerca di luoghi sconosciuti, imparare alcune parole di una lingua nuova per permetterci un migliore adattamento verso popoli e territori diversi dai soliti, assaggiare cibi locali mai provati prima, sono tutte azioni che portano a nuove connessioni neuronali e migliorano l’attività del nostro cervello. Nel 2012 Micheal Venezuela, ricercatore all’Università di Sidney, affermò che “il nostro cervello ha bisogno di crescere” e si inizia a farlo progettando una vacanza, uno spostamento, immaginando il luogo dell’arrivo, documentandosi su ciò che vedremo e che ci accoglierà, decidendo le tappe intermedie, programmando il nuovo itinerario. “Ognuno di noi ha una mappa mentale del mondo, nella quale ogni posto è catalogato come più o meno selvaggio, più o meno incontaminato, più o meno ricco di occasioni per divertirsi”: è una mappa frutto dell’esperienza ricavata da libri, film, racconti di altri, che rende meglio l’idea di quello che andremo a scoprire senza mai partire del tutto impreparati.
Questo, però, spiega perché, alla fine, “ci piacciono di più i luoghi sorprendenti, cioè che non corrispondono completamente alla nostra mappa mentale”, per l’esigenza sempre viva del cervello che aspira a cambiare e modificarsi, a “ridisegnare continuamente queste mappe e farci venire voglia di partire un’altra volta!”.
Esiste, infine, una stretta correlazione tra felicità e viaggio secondo Jeroen Nawijn, studioso alla NHTV University of Amplied Sciences in Olanda. La sua ricerca, infatti, sembra sottolineare come la soddisfazione dello stare in vacanza cresce dal secondo al penultimo giorno, quando l’idea di dover tornare a casa peggiora l’umore. L’ultimo giorno invece la felicità aumenta nuovamente perché “anche tornare è un viaggio”. Pare, inoltre, che una vacanza compresa tra i 3 e i 6 giorni consenta un buon miglioramento dell’umore, per cui non sarebbe male riflettere sull’idea di programmare più vacanze brevi durante l’anno, piuttosto che una lunga, come normalmente siamo abituati a fare, per mantenere un livello di felicità e di soddisfazione adeguato!