La montagna e noi
L’alpinismo è una delle dimensioni sportive che da sempre interessa e coinvolge un grandissimo numero di soggetti. Agevolati dalla presenza di cime spettacolari anche tra le nostre catene montuose, questo fenomeno è ormai ampiamente diffuso sia in estate sia in inverno. I paesaggi spettacolari, il desiderio di libertà, l’avvicinarsi al cielo e ad una manciata di emozioni che profumano di “immenso”, una spinta adrenalinica, sono tante le sensazioni e i motivi che spingono a scegliere di misurarsi attraverso questa esperienza. Non è un caso, però, che anche la psicologia abbia voluto dire la sua. In un articolo molto interessante, apparso sulla rivista Psicologia Contemporanea, si spiegano i motivi della “montagna che incanta”. Ecco i punti salienti di questa particolare riflessione. Il famoso alpinista Walter Bonatti, sosteneva che: “Non esistono proprie montagne..esistono però, proprie esperienze. Sulle montagne possono salirci molti altri, ma nessuno potrà mai invadere le esperienze che sono e rimangono nostre”. In pedagogia, intesa come scienza dell’educazione, si sostiene da sempre la necessità del contatto con il mondo naturale. La natura come maestra, come guida, come punto di partenza per dispiegare la conoscenza di sé e dell’ambiente, per tirar fuori quelle potenzialità, per godere di quella forza, quella carica energetica che dalla terra si sposta agli alberi e a tutto il resto. La montagna è per molti un luogo di pace, la si ricerca, infatti, per il senso di benessere e di serenità che in qualche modo riesce sempre a trasmetterci. E’ un modo per ritornare alle origini, per riappropriarsi di quella dimensione intima di noi stessi che in situazioni normali, nello stress quotidiano non riusciamo più a raggiungere veramente. Sarebbe una grandissima lezione di vita, una forma educativa di grande valore quella di insegnare alle nuove generazioni a riconoscere la montagna e il contesto ambientale, partendo esclusivamente dai propri sensi. Un tuffo nel passato, dove la natura era il simbolo della scoperta di sè e dell’accettazione della propria essenza. Camminare bendati su un prato, distinguere profumi e odori, cogliere con il tatto le diversità degli elementi che ci circondano, ascoltare i suoni che appaiono all’improvviso, restare in quella dimensione di contemplazione visiva che non ha bisogno di parole. Vivere un percorso multisensoriale alla ricerca di emozioni assonnate o spente da tempo. Scriveva il filosofo Pascal: “Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi atterrisce”.
Se accetti la montagna, infatti, accetti implicitamente quella dimensione introspettiva che il silenzio produce. Un silenzio paradossalmente assordante. Ci si sveglia increduli di fronte a tale stranissima sensazione, abituati come siamo a vivere di suoni o di rumori, da sempre. Questa ricerca che abbiamo di un posto “tranquillo”, qui trova la sua ragione d’essere e ci fa comprendere la necessità di voler stare da soli con noi stessi. E’ quasi una sorta di ripiegamento esistenziale, il più possibile lontano dagli uomini e più vicino all’essenza più profonda di sé. Ma c’è di più. Chi non si accontenta di una passeggiata nel bosco, a chi non basta il suono di un ruscello o il cinguettio degli uccellini che si rincorrono nel cielo, è perchè porta dentro qualcosa di più forte: la necessità di una vetta da scalare. Siamo di fronte alla “metafisica dell’alpinismo” che incarna la metafora della vita, così come viene raccontata nel libro “Il Monte Analogo” di Renè Daumal, “il racconto di una scalata a una montagna simbolica che ha il solo scopo di mettere in relazione la realtà con il proprio paesaggio interiore”. C’è un amalgamarsi di elementi che interessano l’aspetto reale (la fatica, il respiro che può risultare difficoltoso, la tecnica..) con quello simbolico (il mondo del “possibile”, “dove poter abbattere..gli schemi difensivi e lasciarsi andare a contemplare con occhi diversi il nostro dentro”). La montagna ci mette di fronte ai nostri limiti e ci spinge a superarli, ma sempre con la consapevolezza di ascoltare dentro di noi, le nostre possibilità, le nostre paure o le nostre difficoltà, perché saper “gestire la rinuncia insegna più del saper raggiungere la vetta”. E’ quella sottile frustrazione che educa, il no che serve a vivere, forse meglio. Nell’opera “Fedone” il filosofo Platone scriveva “Bello è il rischio”, perché la sfida alla morte è da sempre qualcosa che attrae l’uomo spingendolo “oltre”. Ma se la montagna attrae anche per questo, ci insegna, in realtà, qualcosa di più, come la necessità di conoscere meglio noi stessi, dosando le forze, dando il giusto significato all’impresa che si sta per compiere. Non si conquista una montagna, si è conquistati da lei, è questa la filosofia di Nives Meroi, ciò che “sente” dopo le sue straordinarie arrampicate. “Nemmeno in cima alle montaga più alte della Terra mi è mai passato per la testa di alzare le braccia in segno di trionfo; semmai, accovacciata a terra, mi è sempre venuto spontaneo un grazie”. La montagna dà lezioni di semplice umiltà, ci rimanda alla dimensione di esseri minuscoli di fronte alla grandezza sconfinata della natura . “… Che quelle rocce innalzantisi in forma di mirabile architettura, quei canaloni ghiacciati salenti incontro al cielo, quel cielo ora azzurro profondo dove l’anima sembra dissolversi e fondersi con l’infinito, ora solcato da nuvole tempestose che pesano sullo spirito come una cappa di piombo, sempre lo stesso ma mutevolmente vario, suscitano in noi delle sensazioni che non si dimenticano più”.(W.Bonatti)