Lifelogging: viaggio esistenziale nella nuova tecnologia

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Abbi cura dei tuoi ricordi perché non puoi viverli di nuovo”. Se Bob Dylan fosse vissuto oggi, avrebbe certamente riflettuto in modo diverso sul significato della memoria e della vita. Una delle esposizioni più curiose e insolite del 2015 appena lasciato, è stata, infatti, la mostra organizzata alla Science Gallery Trinity College di Dublino, intitolata “Lifelogging: do you count?”, dove social media e strumenti per l’archiviazione digitale sono stati gli assoluti protagonisti. Il viaggio che ti propongo adesso è un’esperienza esistenziale diversa, che nasce dal rapido evolversi del famoso fenomeno del lifelogging. Non credo che alla base della necessità di creare un archivio digitale sempre più preciso e aggiornato della propria quotidianità, ci sia soltanto una passione per la crescente tecnologia che ci circonda, così come sostengono diverse riviste scientifiche. Credo, invece, che la natura stessa dell’uomo abbia un’insita necessità di aggrapparsi a qualcosa di concreto, che rappresenti la sua identità nelle sue sfaccettare più diverse e nei tempi del proprio passaggio sulla terra. “Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo” pensava Isabel Allende e questo, ai giorni nostri, potrebbe essere una spiegazione più “umana” di quanto in realtà sta accadendo. La nostra società è sempre più formata da un insieme di “bit” crescenti, che ci offrono risposte, parametri, confronti, memorizzazioni varie delle nostre normalissime fasi di vita. Il lifelogging era il sogno di Vanevar Bush, scienziato americano, consigliere per la ricerca scientifica che negli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale, che descrisse in un articolo per la rivista “The Atlantic“, il memex, acronimo di memory extenderuna macchina che avrebbe consentito all’uomo di essere padrone di tutta la conoscenza acquisita”. Doveva essere una sorta di dispositivo meccanico per archiviare documenti, libri e il maggior numero di informazioni possibili, che avrebbero dovuto essere recuperati in caso di necessità.

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Oggi la tecnologia moderna ci consente di registrare i flussi della nostra esperienza attraverso dispositivi di vario genere: telecamere, registratori, sensori, Gps. Tutto quello che vediamo, facciamo, sperimentiamo, ma anche la frequenza cardiaca e altri parametri personali possono essere depositati in una sorta di memoria digitale dalle capacità sorprendenti, con l’intento di “clonare” la nostra vita in ogni suo piccolo dettaglio, una sorta di immenso hard disk esterno, che ci rappresenta nel tempo e nel mondo. In commercio, infatti, si trovano già diversi supporti come “Narrative” e “Saga”. Il primo è una macchina fotografica minuscola, che scatta foto in automatico ogni 30 secondi e che si può indossare come una spilla e portare sempre con sé. La seconda, invece, è un’applicazione, “l’evoluzione del diario e tiene traccia in automatico dei posti visitati e delle attività svolte”. I lifelogger sono ormai individui presenti e convinti nella nostra società, come Cathal Gurrin, ricercatore dello Human Media Archive Group della City Universitary di Dublino che da 8 anni vive a contatto stretto con la tecnologia (telecamera al collo, Google Glasses e cellulare con Gps) da mattino a sera, raccogliendo circa 3500 foto al giorno, decine e decine di posizioni di Gps e migliaia di documenti e informazioni all’anno. Il motivo di questo suo modo di essere, lo spiega così: “Sono una sorta di cavia. Sto costruendo un archivio per un esperimento che non è mai stato fatto”. Se da un lato c’è il fascino di una ricerca insolita e straordinariamente ricca di dati che mai nessuno ha pensato di svolgere prima, dall’altro, uno dei limiti più evidenti di questo procedimento è il significato. Il paradosso di tutto questo è il tempo.O viviamo o ci guardiamo vivere. Non c’è modo di fare entrambe le cose..” . A che cosa serva realmente il lifelogging nessuno, oggi, lo può dire con certezza. Recuperare tutti questi dati per poi riutilizzarli pare essere, attualmente, un’impresa quasi impossibile, che sembra però non spaventare i vari lifelogger: per adesso raccolgono le più svariate informazioni e solo in un secondo tempo penseranno a cosa farne! Per molti può sembrare una cosa fantastica, per altri una perdita di tempo e di vita, resta il fatto che questo fenomeno fa parte della nostra società, sempre più tecnologia e forse alienata. C’è da augurarsi di trovare un finale degno di tanta strada percorsa: “E forse alla fine, la memoria si trasformerà in una grande sala con gli orologi fermi sulle distinte ore in cui siamo stati felici”. (Juan Varo)