Occidente e Oriente a confronto: mindfulness e altre riflessioni
In una società sempre più in evoluzione non è difficile porre l’attenzione su alcune particolari tendenze esistenziali, che possono avvicinare o allontanare il mondo occidentale, in cui viviamo, e quello orientale che tanto affascina. Quello che mi ha particolarmente colpito è scoprire come queste due diverse culture possano influenzare lo sviluppo del cervello che come sappiamo, si adatta e si modifica. Anche se la recente, continua e crescente globalizzazione cerca di livellare le differenze mostrandoci un Occidente sempre più vicino ai benefici della meditazione e delle tecniche orientali e un Oriente più modernizzato, le neuroscienze ci sono di grande aiuto per visualizzare attraverso tecnologie di imaging, le varie aree del cervello e notare così alcune diversità tra questi due grandi gruppi. Il quoziente d’intelligenza è quello che maggiormente stupisce. “Se in Occidente la media è 100, tra gli asiatici la media è 106, con una punta di 113 a Hong Kong”. Una delle spiegazioni è data dal ruolo della lingua. “Nei cervelli cinesi si illumina anche una regione dell’emisfero destro che noi occidentali utilizziamo per elaborare la musica. La ragione è semplice: il cinese è una lingua tonale e lo stesso suono può avere significati completamente diversi a seconda delle tonalità con cui questo viene pronunciato”. La lingua cinese stimola , quindi, almeno in parte la superiorità dei cervelli orientali e meglio si comprende il perché Zuckerberg, fondatore di uno dei più grandi social come Facebook, si sia messo a studiare proprio il mandarino. Anche la comunicazione ha il suo perché nel mostrare le differenze culturali. Noi parliamo tantissimo, diamo importanza al contenuto e preferiamo la prosa. In Oriente si parla meno, si è più attenti alla forma e si recitano, per esempio, matra tibetani che sposano il genere letterario più vicino alla poesia. Il nostro linguaggio, secondo Christopher Bollas, psicoanalista contemporaneo, autore di “La mente orientale” è chiaro ed esplicito e segue i canoni della trasmissione di un messaggio tra emittente e ricevente; in Oriente si parla per metafore e analogie,cercando di unire il rapporto tra le persone piuttosto che fissare confini e dividere. Questo è stato dimostrato da Joan Chiao, ricercatrice alla Northwestern University (Usa) nel 2009. “C’è una regione del cervello subito dietro la fronte, nella corteccia prefrontale mediale, che si illumina quando una persona descrive se stessa”. Nei cinesi “la stessa regione si illumina anche quando descrivono la loro madre, questo perché gli occidentali tendono a vedersi come autonomi, i cinesi come connessi a un insieme più ampio”.
La cultura orientale prevede il vivere in armonia con gli altri e con la natura, dando scarso significato alla vita umana del singolo, ritenuta transitoria ed effimera. Mentre gli occidentali prestano maggiore attenzione al dettaglio in un determinato contesto, gli orientali si concentrano sull’ambiente, sul tutto che li circonda. I primi seguono ideali come l’affermazione individuale e l’indipendenza, i secondo praticano l’interdipendenza e l’armonia con il mondo. Curiosa la diversità anche nell’utilizzo delle famose “emoticon”. Masaki Yuki, psicologo giapponese, ha dimostrato che “per leggere le emozioni i giapponesi guardano gli occhi, gli americani la bocca. I giapponesi ridono raramente perché la cultura nipponica esalta la conformità, l’umiltà e la repressione delle emozioni, considerati tutti tratti importanti per promuovere le relazioni”. In Oriente le emozioni si esprimono, infatti, prevalentemente con gli occhi che sono più difficili da controllare. Occidente e Oriente sono così incompatibili? La risposta è no. Negli anni ’70 Jon Kabat-Zinn biologo molecolare al Mit Cambridge (Massachusetts) negli Stati Uniti trovò una correlazione interessante tra spirito orientale e scienza. Prese i principi di base del buddhismo, li riformulò e costruì un protocollo terapeutico chiamato “Midfulness-Based Stress Reduction” (riduzione dello stress basata sulla consapevolezza). Era il 1979 anno in cui nacque la Mindfulness che pur partendo da una solida base orientale, ha in Occidente il suo sviluppo sempre più crescente e accreditato. E’ una pratica che richiede impegno, che porta a “cambiare la mente” e a trasformare il cervello, così come riporta un recente articolo uscito su “Nature Neuroscience”: “la Mindfulness sembra modificare soprattutto le regioni coinvolte nel controllo dell’attenzione (corteccia cingolata anteriore e striato) nella regolazione delle emozioni (regioni prefrontali e limbiche) e nella consapevolezza (insula e corteccia cingolata posteriore)”. Un esercizio occidentale che ci porta ad “orientalizzarci”, un modo per avvicinare l’universo e coglierlo nella sua magnifica grandiosità.